Ricordi gli assalivano il cervello rimuginante. Il bicchier d’acqua del rubinetto di cucina quando si era accostata al sacramento. Una mela svuotata, piena di zucchero caramellato, a rosolarsi per lei sul focolare in una buia sera d’autunno. Le sue unghie affusolate rosse del sangue di pidocchi strizzati sulle camicie dei bambini.
(James Joyce, Ulisse)
«Dammi i soldi»
Era il 2011 e mi sentivo arrabbiato. Non scrivevo ormai da mesi ed ero stanco dei continui insulti gratuiti che la mia città mi stava riservando. Mi sentivo vinto. Vinto da quell’accettazione a cui non volevo appartenere, ma che a poco a poco veniva accolta dalla mia indole sfatta e logora che si stava arrendendo sottomessa e sconfitta a quella superficialità che ci hanno insegnato a condurre per non farci alzare troppo la testa e farci stare buoni a subire in silenzio in questo mega macello inquinante e parodistico che è Napoli.
«Dammi i soldi» Ripetei alzando lo sguardo
L’uomo che avevo davanti era un uomo sulla cinquantina, calvo, in giacca e cravatta, con le dita ossute e un ghigno odioso stampato sul muso, di quelli che non dimentichi così facilmente. Alle sue spalle una grossa macchina blu metallizzato colorava d’ombra l’asfalto grigio e rovente ancora caldo del sole di agosto.
«Dammi i soldi, dammi i miei soldi e levati dalle palle» Intimai minaccioso urlandogli contro, brandendo un grosso sanpietrino raccolto in un angolo e puntandolo in direzione dell’auto.
L’uomo si frugò nervosamente nelle tasche e ne estrasse delle banconote nuove. Me le passò con calma, come si fa con un oggetto contundente. Gliele strappai dalle dita guardandolo fisso negli occhi marroni da cane figlio di papà uomo dei soldi nuovi e delle raccomandazioni, del baretto, che si fa le vacanze a Ischia col gommone perché fa figo.
Sorrisi schernendo la sua paura e la faccia sudata e disperata e iniziai ad avanzare con la pietra stretta in una mano in direzione dell’auto, quando mi sentii strattonare alle spalle da qualcuno venuto in suo soccorso che mi gettò a terra su alcuni cocci di vetro, scagliandosi contro la mia testa con calci e pugni, ansimando e sbuffando come un ferro da stiro a vapore, avvolgendomi di quella violenza tutta particolare, tipica della loro specie.
«Poveri idioti, non hanno nemmeno un loro modo di picchiare» pensai ridendo, estraendo alcune schegge rosse dal braccio.
Raccolsi le forze e mi alzai di scatto correndo di nuovo in direzione della macchina e lanciai la mia pietra con tutta la rabbia che avevo accumulato durante gli anni: mi passarono davanti come un film i lavori saltuari sottopagati e sempre a nero, le umiliazioni e le involuzioni, le fatiche sprecate e i sogni irrealizzati, quelli a cui tenevo più di qualsiasi altra cosa, a cui ho dovuto rinunciare troppo spesso,
Scagliai la mia pietra che trapassò l’auto da parte a parte, formando due grossi crateri lungo le portiere tirate a lucido da cui iniziò a sgorgare vernice azzurra sanguinante e fiera tenuta in ostaggio che inondando il marciapiede iniziò a colorare ogni cosa: le strade, le auto impolverate, i palazzi anneriti, la munnezza, le statue stuprate dai graffiti… Tutto divenne colorato e pure la notte divenne giorno: le sveglie suonarono e le persone si riversarono assonnate e frenetiche sulle strade per andare a lavoro. La notte scomparve e col passare del tempo nacquero nuovi posti di lavoro. Tutti divennero felici e tutti i napoletani emigrati nel mondo durante i secoli tornarono a casa ritrovando il loro paese e le loro famiglia…
Mi svegliai di colpo sentendomi graffiare la faccia, Minoe aveva fame. Mi alzai pesante trascinandomi verso la cucina e le diedi le sue cazzo di crocchette, le accarezzai un po’ il dorso domandandomi se anche i gatti sognano e mi accesi una sigaretta. Diedi un’occhiata fuori scostando un po’ la tendina che si impigliava spesso nella finestra cigolante: era ancora notte, la luna era splendida e alta nel cielo, sulla strada una macchia di vernice blu era stata spalmata dalle ruote di un auto…