Riggan Thompson è una vecchia star hollywoodiana, famosa per aver interpretato un supereroe, Birdman, capace di librarsi nel cielo con il suo scintillane piumaggio per sconfiggere le forze del male che minacciano la Terra. La sua esistenza, apparentemente ad un bivio, è mossa dall’ambizione di dimostrare al mondo, ed a se stesso, di essere qualcosa di più di un vecchio attore cinematografico. Lo troviamo alle prese, infatti, con l’adattamento del racconto capolavoro di Raymond Carver “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”. La sua impresa è tremendamente ardua: si fa attore e regista allo stesso tempo, “occupando”il palcoscenico di uno storico teatro di Broadway, confrontandosi con gli altri membri del cast, tutti personaggi complessi, irrisolti, fondamentalmente infelici, per riuscire a raggiungere il suo obiettivo.
Riggan è un eroe contemporaneo, dilaniato dal conflitto di base tra una spontanea autenticità ormai perduta ed un processo di idealizzazione di sé in grado di elevarlo nella stratosfera vacua in cui ogni fatica è magicamente risolta senza il minimo sforzo.
La sua vicenda ci riporta alle parole di Karen Horney, quando più di cinquant’anni fa considerava l’idealizzazione di sé come meccanismo principale che l’individuo agisce inconsciamente per sopravvivere psicologicamente in un mondo percepito come “potenzialmente ostile”.
L’individuo sofferente, costretto da più fronti a ricorrere alla fantasia per sentirsi intero, per sperimentare un sé solo in apparenza coeso, abile a fronteggiare le difficoltà ambientali, costruisce una sua immagine idealizzata. Questa costruzione fittizia è qualcosa di molto lontano dalla dimensione reale, ma è comunque utile all’individuo per sopravvivere all’angoscia di base che minaccia il senso profondo dell’esistere.
Karen Horney sottolinea il carattere lusingatorio di questa immagine illusoria che il nevrotico crea e che, consciamente od inconsciamente, permette al soggetto di poter continuare a portare avanti le proprie illusioni circa la risoluzione efficace del conflitto di base. Il nevrotico, sottolinea l’autrice, diviene arrogante, nel senso stretto del termine, perché si arroga il diritto di pensare di essere genio o santo, bello o potente e comunque tende ad allontanare la realtà dei fatti. Riggan Thompson ne è un esempio lampante, straordinario. Dialoga con il suo “personaggio alato” che a più riprese lo esorta a liberarsi dalle catene del reale per abbandonarsi all’idealizzazione di sé e sfuggire così al confronto con le sue reali possibilità ed i suoi veri desideri.
La caratteristica peculiare della immagine idealizzata è quella della staticità, per cui è quasi impossibile per il soggetto tendere al cambiamento e men che meno alla messa in discussione delle proprie aree grigie. Essa è una immagine fissa da idolatrare e non un ideale da perseguire con innumerevoli sforzi.
“Gli ideali genuini conducono all’umiltà, l’immagine idealizzata all’arroganza”.
La funzione fondamentale dell’immagine idealizzata è dunque quella di sostituire alla fiducia di sé una fiducia fittizia che porta il soggetto ad essere guidato da dictat esterni piuttosto che cercare di governare la propria vita. In questo contesto il mondo è visto come minaccioso e ostile e l’immagine ideale trae da questa visione maggiore linfa vitale per attecchire e svilupparsi. In realtà, il nevrotico si sente spregevole e debole, ed è costretto a rifugiarsi nell’immaginazione, costruisce cioè una immagine che evidenzi il netto contrario rispetto alla sensazione di annichilimento e faccia emergere caratteristiche particolari ed uniche rispetto al resto della gente.
Una delle funzioni principali della immagine idealizzata è quella di consentire l’annullamento e l’oscuramento dei peggiori difetti del nevrotico: egli si vedrà guidato da principi solidi ed indiscutibili e governato dalle più nobili virtù.
Ciò che il soggetto rifiuta di vedere per mezzo dell’immagine che egli crea di sé stesso è conforme al rapporto coatto che egli crea rispetto agli altri: l’immagine idealizzata cristallizza le relazioni con gli altri e consente al soggetto di rapportarsi evitando i conflitti inconsci.
“L’ammissione di certe deficienze lo metterebbe di fronte ai suoi conflitti”
Attraverso lo sguardo di Riggan, ci viene presentata la società contemporanea, arida e fittizia, priva di slanci creativi, frammentata e sperduta. Ci viene presentata una visione di noi stessi alle prese con la tecnologia, una forma invasiva e destabilizzante di tecnologia, creatrice di un nuovo paradigma nel quale è la “viralità” a sancire il diritto d’esistenza. Ci viene descritta una modalità di dialogo con noi stessi basato sulla dissociazione patologica tra immagini di sé in conflitto, tra reali possibilità e talenti e tiranniche ambizioni di successo. Ci viene raccontato il dramma quotidiano dell’esistenza, nel quale siamo in perenne equilibrio dinamico tra la necessità di sperimentarsi dipendenti dal contesto di riferimento, dalle sue aspettative e dal suo occhio riconoscente ed il bisogno vitale di sentirsi unici, indipendenti, autonomi.
Trailer del film – link all’articolo originale
Si ringrazia il dott. Fabio Masciullo per la gentile concessione