La musica è nata nei vicoli di Napoli

Teatro Mediterrano. Da sinistra in alto: Peppe Lanzetta, Gianni Fiorenzano, Pino Daniele (col cappello). Napoli (1974)

La musica, così come la conosciamo oggi, è nata nei vicoli di Napoli, dalle idee creative di giovani talentuosi che si ritrovavano la sera a suonare e a parlare dei loro sogni, figli di una città che è sempre stata un porto aperto alla cultura.
Tutto è nato in quelle situazioni, in locande popolari del quartiere Sanità o in localini di periferia dove gruppi di studenti incontravano il “nuovo sound” americano o inglese. Siamo negli anni del dopoguerra, il mondo stava cambiando e i ragazzi di allora ne stavano facendo parte, perché finalmente avevano trovato un mezzo valido, incisivo, e soprattutto pacifico, per farsi sentire.

Gianni Fiorenzano è stato uno di questi giovani. Classe ’53, napoletano nato e cresciuto nel quartiere Sanità, ascoltatore seriale di musica da oltre quarant’anni e testimone prezioso dello sviluppo musicale che ha preso le mosse dall’ambiente multiculturale napoletano che ha cambiato l’Italia intera e non solo, ha vissuto direttamente o indirettamente quei momenti di formazione culturale da cui la sua città è dovuta passare per crearsi un’identità nuova e ancora una volta tutta originale. Poiché come lui stesso ammette, la forza di un popolo risiede nell’accoglienza culturale, nell’inglobare le influenze altrui e trasformarle, come un grande creativo che sa apprendere e valorizzare. Gianni ora abita a Materdei, mi parla dei suoi ricordi con un’attenta analisi empirica e minuziosa, tra vecchie ambizioni passate ormai maturate e aneddoti singolari, ma con la consapevolezza delle sue preziose radici: la sua non è una di quelle napoletanità ricercate e ostentate, ma è anzi consapevole e obiettiva.
Le pile di dischi 33 giri prendono gran parte della parete della sua camera, e accanto alla sua scrivania i Beatles stanno attraversando le strisce pedonali in via Caracciolo…

Perché la musica ha scelto Napoli?

Perché Napoli? Fino agli inizi degli anni ’60 la musica in Italia era soltanto targata Napoli!
Nel senso che Napoli è stata sempre rivoluzionaria da un punto di vista musicale e anche storiografico della musica, perché essendo una città di mare, quindi un porto, è sempre stata aperta a tante culture e queste hanno lasciato la loro impronta, poi è stata la capacità dei napoletani di renderle proprie e inserirle nella loro tradizione.

Perché noi abbiamo sempre avuto, allora come oggi, un grande senso dell’accoglienza, non solo fisica ma anche culturale, noi siamo sempre stati aperti alle nuove culture, al punto da prendere quegli elementi culturali che tutti noi ritenevano validi e metterli insieme e farli nostri come abbiamo fatto ad esempio col café-chantant, che abbiamo accolto dalla Francia alla fine dell’ottocento. Ma se vogliamo partire dalle origini, questa apertura culturale la notiamo già nel cinquecento, in cui troviamo contaminazioni provenienti dal mondo orientale.

Nel dopoguerra abbiamo avuto canzoni molto importanti come la famosa “Tammurriata nera” che ha portato con sé un’ondata di ritmi sempre più nuovi. Allora la musica italiana era così impregnata di opere, di melodrammi che pareva essere diventata ormai piatta, a Napoli invece avevamo assorbito quelle enormi contaminazioni di cui parlavamo prima che ci hanno portati ad usare dei ritmi nuovi mai usati prima, come ad esempio il “terzinato”, che è stata una grossa evoluzione già nei primi anni ’50. La canzone napoletana è stata il non plus ultra di quegli anni, contrariamente a tutte quelle canzoni italiane che erano in voga. La musica napoletana era più briosa, era più ritmica e affascinante. Non so da cosa dipende, ma i nostri talenti napoletani hanno sempre avuto quella marcia in più in campo artistico, per inventiva e originalità, non a caso i più grossi artisti prima o poi passano per Napoli. Vedi Carosone, che i primi anni di attività li aveva trascorsi nel Nordafrica a contatto con le truppe di occupazione inglesi e americane assorbendone i ritmi, convertendoli in chiave napoletana e usando degli artifici musicali funambolici: è stato un grande pianista ed è riuscito a portare la musica napoletana e italiana ad alti livelli, alla diffusione di quei stili musicali che negli anni del fascismo erano rimasti sconosciuti.

Prima di allora nessuno aveva idea di cose fosse lo “stile musicale americano” come ad esempio lo swing e il jazz. E Carosone è stato il capostipite di grandi musicisti napoletani, come Peppino di Capri ad esempio, che alla fine degli anni ’50 è stato un altro innovatore arrangiando  le canzoni napoletane in chiave moderna, usando lo stile del rock ‘n roll americano, rifacendosi ad esempio allo stile di Johnny Ray, che è stato un cantante con una particolarità: era mezzo sordo. E a Buddy Holly, di cui ne imitava il look con quegli occhiali neri (ndr nerd). Questi sono stati grandi innovatori, precursori di tutto quello che è stato il discorso successivo che ha coinvolto tanti musicisti, anche di altre regioni. Negli anni ’50 abbiamo avuto un grosso sviluppo della musica napoletana che veniva interpretata da molti artisti dell’epoca, Teddy Reno in testa, che cantavano canzoni napoletane. Perfino Modugno, tra gli anni ‘50 e ‘60, aveva fatto varie canzoni in lingua napoletana, tra cui la bellissima “Tu si ‘na’ cosa grande” portata al festival di Sanremo del ’64, rimasto ancora oggi un pezzo molto apprezzato.

Il concetto di “porto culturale” lo possiamo ritrovare nelle sonorità degli anni ’60 con i vari festival della canzone napoletana, a cui partecipavano tutti i grossi nomi del di quegli anni, erano insomma l’antitesi del Festival di Sanremo, e non c’era cantante famoso che non venisse a Napoli per parteciparvici: Equipe 84, Peppino Di Capri, Giorgio Gaber prima della sua svolta politica-sociologica (la sua famosa A’pizza, cantata in coppia con Aurelio Fierro, fu molto acclamata). Nel ’66 vi partecipò anche un gruppo che si chiamava Vito Russo e i 4 Conny, di cui vi faceva parte James Senese e un giovanissimo Mario Musella, che ritroveremo qualche anno più tardi negli Showmen, insieme ad Elio D’Anna ed altri artisti.
Ricordo in quegli anni un giovane James Senese che era uno dei tanti “figli della guerra”(figli a cui Eduardo Nicolardi si ispirò per la sua Tammurriata nera) e aveva una particolarità: suonava due sassofoni contemporaneamente. E questa cosa colpiva moltissimo gli ascoltatori, oltre che a questa sua caratteristica fisica che era una testa piena di ricci enorme. Lui suonava con un piede poggiato al muro e due sassofoni. Per noi ragazzini era una cosa eccezionale, ci chiedevamo come facesse a suonare in quel modo.

Il linguaggio musicale stava cambiando, in quel periodo  ci fu la diffusione nazionale di un certo tipo di musica chiamata “beat” con vari gruppi come I Nomadi, Équipe 84 e gli inglesi Rokes capeggiati da Shel Shapiro, Celentano, Mina, Jannacci, e qualche gruppo che si rifaceva al rock ‘n roll come Little Tony, massimo esponente italiano. Furono gli antesignani di quel genere musicale.
Nel frattempo Carosone scioglie il suo gruppo e si ritira a vita privata, fra rumours e pettegolezzi. Il perché lo seppi nel 1982 in un nostro incontro: mi disse che si erano dette un sacco di cose su di lui, di una sua presunta malattia ma più semplicemente si era reso conto che per lui, come artista, come musicista, non c’era più spazio. Perché il linguaggio era cambiato, era cambiato il modo di impostare la musica, lo spettacolo in generale. Per cui ritenne opportuno uscire di scena (bisognerà attendere una ventina di anni per a una sua successiva produzione).

A Napoli avevamo una miriade di gruppi che si esibivano nei piccoli locali, che nella seconda metà degli anni ’60 facevano musica beat, e c’erano tanti gruppi: i Volti Di Pietra, i Tops, Le vocali… Erano tutti gruppetti formati da studenti che rifacevano i brani che ci arrivavano dall’Inghilterra e dall’America, quindi i brani dei Monkees, dei Beatles, dei Rolling Stones

Gianni F e la sorella Nunzia (1970)

Mi ricordo una versione di “Gimme Some Lovin” degli Spencer Davis Group fatta da un grande chitarrista, non so se suona ancora, che è Lino Aiello, che suonava con I volti di pietra, che sono quelli che poi andranno a formare in seguito gli Osanna. Lui riusciva con la chitarra a imitare alla perfezione le note che Steve Winwood suonava con l’organo Hammond, ed era una cosa molto particolare. Lino Aiello è stato per un periodo la mia “vittima designata” perché io essendo all’epoca un dilettante con la chitarra andavo in un locale che si chiamava” La tana del ragno” dove si faceva solo rock’n’roll e musica beat (all’epoca c’era questa particolarità: ogni locale era specializzato in un genere musicale e il più della volte si trovavano nella periferia  nord di Napoli come Miano e Piscinola, a “La fogna”, verso Piscinola, si faceva soul). Mentre Lino Aiello suonava, io che non ero interessato al ballo ma alla musica, gli facevo “Oh… ma cos’è sta cosa che stai facendo qua, che accordo è?” e lui “Ma lasciami suonare, sto suonando!” e dopo molta insistenza mi accontentava e pazientemente mi mostrava l’accordo, ma erano più le volte che mi mandava a quel paese che quelle che mi accontentava… A Napoli centro avevamo il “Club 88” che stava a Piazza Carlo terzo, c’era l’“Hit parade”, c’erano vari locali storici dove si esibivano questi gruppi, e altri grandi nati dopo come il “Queen Elizabeth”, in cui andavano i grossi nomi.

Il gruppo più importante di quel tempo erano gli Showmen, che facevano rhythm ‘n blues e i pezzi di Wilson Pickett, dei Chicago, di Janis Joplin. E noi ne restavamo incantati dalla loro tecnica e musicalità. Nel ’67 ebbero poi la fortuna di essere scritturati dalla RCA italiana e iniziarono questa collaborazione con una serie di brani anche originali, e nel ’69 andarono poi a Sanremo, sciogliendosi poi qualche anno dopo. Ed erano il fiore all’occhiello della musica napoletana in quel periodo, mettendo da parte di Capri che era ormai rientrato in uno schema più melodico, abbandonando quel rock‘n’roll americano, e questo fu un vero peccato considerato che fece da spalla ai Beatles nella loro tournée italiana nel ’65 (se questa è stata una nota di merito per lui o una di demerito per i Beatles lo lascio giudicare a voi)

Nel ’71 con gli Osanna, col loro primo disco intitolato “L’uomo”, nasce un discorso nuovo e originale, che si rifaceva sì alla tradizione come modo di vedere la musica attraverso i racconti e le sensazioni, ma prendendo spunto anche dalla musica popolare per alcuni versi. Li ascoltai per la prima volta in un locale a S. Martino che si chiamava “Seventh Sky”: avevano un modo particolare di suonare che ti coinvolgeva e ti affascinava, io allora avevo 18 anni… E con loro nasce, secondo me, quello che verrà poi chiamato “Neapolitan power”.

Napoli, autostop per il concerto dei Pink Floyd a Roma 1971 (Gianni F a destra)

Da lì poi iniziarono i grossi raduni, il film Woodstock nel ’70 stava influenzando il modo di aggregarsi-per-fare musica, dando una spinta enorme anche in Italia a fare i grandi festival di musica rock. E questo si riflesse ovviamente anche su Napoli che nel ’73 col “Terzo festival di avanguardia e nuove tendenze”, che si fece alla Mostra d’Oltremare, vide sul palco grossi nomi dell’epoca come Il rovescio della medaglia, Alan Sorrenti (che nel frattempo aveva sviluppato anche lui questo nuovo discorso vocale ad esempio col disco “Aria” del ‘72) e Il Cervello, con Corrado Rustici, diventato poi uno dei massimi chitarristi su scala mondiale, e Gianluigi di Franco, che era il vocalist.
Forse questo è stato il periodo musicale più fecondo per la scena napoletana, basti pensare agli Uno, nati dalla scissione degli Osanna, con Enzo Vallicelli e il chitarrista Danilo Rustici, ai Città frontale, che nel ’75 incisero un bellissimo album chiamato “El Tor” (nome scientifico del vibrione del colera) con Lino Vairetti, Gianni Guarracino e Enzo Avitabile al sassofono.

Questo diede a noi adolescenti dell’epoca un enorme incipit creativo e tutti noi ci lanciammo in avventure artistiche sia musicali che teatrali, dagli esiti più o meno fortunati. In quel periodo ebbi la fortuna di conoscere gente del calibro di Pino Daniele, allora ventenne studente dell’istituto Diaz, di Peppe Lanzetta, di Rosario Jermano, che ancora oggi è molto attivo in campo musicale, e di tanti altri artisti che hanno iniziato da quello che è stato un po’ il punto di partenza per tutti gli artisti napoletani, come la famosa La Grotta alle Fontanelle, che era del compianto Enzo Ciervo, un artista molto valido, dalla vocalità molto spinta. Era uno di quelli che poteva cantare di tutto grazie alla sua voce potente e armoniosa. E lì sono passati un po’ tutti: Pino Daniele, gli Osanna, i Napoli Centrale, Tony Esposito, ecc.. E avevamo il nostro punto di ritrovo che era la famosa Cantina del GalloLa sera ci si ritrovava lì con Pino, Enzo e molti altri artisti e si discuteva, si suonava, si cantava.

Pino Daniele nel ’74 collaborava con un gruppo chiamato Batracomiomachia, ed entrambi facevamo parte di un gruppo teatrale chiamato “Teatro insieme” in cui io suonavo la chitarra e lui il mandolino, che non aveva mai suonato prima. Ma Pino aveva questa particolarità: qualunque cosa nelle sue mani diventava musica, diceva “ma cos’è sto coso? Non l’ho mai suonato!” e non so come, iniziava a suonare quello strumento come se lo facesse da sempre, e tutti noi pensavamo “e meno male che non lo sapeva suonare!”. Insieme facemmo uno spettacolo al teatro Mediterraneo nel 26 aprile del ’75. Da questo gruppo teatrale sono venuti fuori molti talenti come Rosario Jermano, Peppe Lanzetta, lo stesso Daniele, Tonino Taiuti… Eravamo molto giovani, ventenni che volevano divertirsi ma da lì la scena napoletana si è rinnovata indelebilmente.

Teatro Mediterrano. Da sinistra in alto: Peppe Lanzetta, Gianni Fiorenzano, Pino Daniele (col cappello). Napoli (1974)

Pino inoltre quell’anno iniziò una serie di collaborazioni con Jenny Sorrenti, con la quale incise un disco, facendo il turnista in sala di registrazione. E Nel ’75 iniziò una tournée con Bobby Solo, che faceva rock‘n’roll con brani di Elvis Presley oltre al suo materiale. Bobby Solo conobbe Pino Daniele qualche mese prima nella sua sala di registrazione a Roma, poiché con Jenny Sorrenti stava registrando il disco “Suspiro”, e apprezzando il suo stile gli chiese di suonare per lui in tournée in Belgio.
Ricordo la vigilia di Natale del ’75 con Pino andavamo in giro nel quartiere Sanità suonando e cantando per fare quello che all’epoca si chiamava la “’nférta”. Alla fine eseguì dei suoi brani. Forse quella fu la prima volta che si esibiva da solo in pubblico. Lo fece alla Sanità perché quella è stata la sua seconda casa, frequentando posti come “La grotta” alle Fontanelle. Pino fu molto legato al quartiere Sanità che ispirò di certo la sua primissima produzione.

Questi furono anni molto importanti dal punto di vista culturale, che hanno stravolto indelebilmente lo stile di musicale dell’epoca e di oggi. Da qui, da quegli anni sono partiti quei talenti che ancora oggi continuano a fare musica in Italia.

In che modo l’evoluzione musicale ha influenzato le vostre idee?

Avevamo delle battaglie da fare e ci sentivamo in dovere di fare delle cose, di ribellarci attraverso la musica. Bisogna innanzitutto chiedersi: perché questo discorso ha toccato più i giovani? Prima della seconda guerra mondiale non esisteva una vera e propria questione giovanile, non si parlava dei bisogni dei giovani, Benedetto Croce diceva che “l’unico dovere dei giovani è quello di mettere su famiglia e invecchiare”. Nel dopoguerra, in effetti, i giovani sono diventati oggetti da studiare sociologicamente perché hanno iniziato a capire che loro potevano avere un ruolo e quindi potevano influenzare la società e fare delle richieste, potevano cambiare le cose con l’impegno civile. Da lì è iniziato quel discorso di cambiamento culturale. I giovani sono diventati portatori di istanze sociali, hanno capito che potevano fare gruppo e interagire col potere, essere fautori del proprio futuro, che anche loro avevano il diritto di decidere come dovesse essere strutturata la società. E la massima esposizione possiamo vederla coi fatti del ’68, passando tra le varie battaglie contro la guerra del Vietnam, contro la costruzione del muro di Berlino nel ’61.
Tutto questo inevitabilmente ha portato a fare musica e arte nuova, gli orizzonti si sono allargati e le grandi proteste si sono riversate anche nella musica, abbiamo visto Hendrix che ha suonato l’inno americano e i Jefferson Airplane a Woodstock o i vari De Andrè, Jannacci, Guccini in Italia e prima ancora Tenco. Questi artisti hanno preso le mosse da un disagio sociale  contro il potere. E noi giovani dell’epoca abbiamo iniziato a mettere da parte il libro “Cuore” di de Amicis e le poesie romantiche, e abbiamo iniziato a leggere Kerouac, i poeti beat Corso e Ferlinghetti, Ginsberg, oppure avevamo visto “Ricorda con rabbia” di John Osborne nel 1956.

Forse prima eravamo sognatori e abbiamo iniziato ad aprire gli occhi dopo il ’77 con la situazione politica italiana dell’epoca, con gli anni delle Brigate Rosse. In quegli anni vi è stata la fine della nostra “innocenza culturale”, c’eravamo illusi di essercela cavata e negli ’80 ci siamo avvalsi di un benessere fittizio che si è riverberato, come abbiamo imparato dalla storia, nella musica con questi nuovi suoni sintetici dallo stile molto pomposo e ostentato. Forse dovremmo fare un salto in avanti fino ai ’90 per ritrovare col grunge americano una musica rock più autentica e viva, seppur con un ritorno alle origini musicali e culturali.
Stavamo andando avanti eppure stavamo citando ancora una volta il passato con intenso vigore…


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