Quel vecchio primo maggio

“Sogno, non m’importa se una certa visione del lucro come unico traguardo dell’uomo stigmatizza i sogni e i sognatori. Mi considero un sognatore, ho pagato un prezzo abbastanza alto per i miei sogni, ma sono così belli, così pieni e intensi, che ogni volta tornerei da capo a pagarlo” ha scritto Sepúlveda ne Il potere dei sogni.
Ma se tutti i sogni in realtà facessero parte di un unico grande sogno che si ripete all’infinito manifestandosi in modi diversi?
Ciò che segue è la ricostruzione degli eventi che fecero quel vecchio primo maggio e delle cose che scrissi in modo più o meno intelligibile poco dopo esser rimasto chiuso in quel bagno sette anni or sono.

“Sono qui, non so da quanto, fuori c’è la fila lo so, sento i loro pugni sulla porta, la tengo chiusa come posso spingendola con una mano contro i cardini, l’altra è premuta sulla mia fronte, ogni tanto la lascio alla penna. La musica è alta, il protagonista è un tizio di nome Johnny. Poco distanti dal mio naso la vita si mescola reincarnandosi in  assorbenti usati e cicche spente”. Johnny è un ragazzo nero di New Orleans cresciuto in una capanna di legno, non sa né leggere né scrivere ma ha un enorme talento alla chitarra e tutti lo ascoltano suonare e gli augurano buona fortuna. “La chitarra è tagliente e un bel ritmo rock ‘n roll sta venendo giù, e con lui i litri di libertà di cui ho approfittato tutto il giorno, che ora vengono fuori dissacranti, godendo di questa storia non molto fresca eppure sempre attuale. Non ricordo molto di oggi: ricordo bocce di vino, enormi frittate di pasta, dei versi di Whitman: «Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto. La nostra nave ha rotto tutte le tempeste», poi nulla più”. Ed ero lì abbracciato al cesso quando afferrai il significato della vita. Mi passò davanti in un baleno la chiara spiegazione dell’origine della nostra esistenza a cui sono stati dedicati secoli di interrogativi, le più grandi opere d’arte, e io ce l’avevo lì in quel preciso istante, fino a che chinai la testa e vomitai.  La porta si aprì e iniziai a urlare minaccioso: «Nasciamo e moriamo per un qualcosa. Qualcosa per cui i più grandi filosofi, scienziati e poeti hanno basato la loro vita, e scrivono libri, e appaiono in tv dicendo di averlo capito. E la chiamano religione, scienza, altri se ne sbattono… » .
BRLUAHAAA, vomitai.
Sentii la porta richiudersi. Ed ero lì disteso e pensavo a quanto sia inutile darsi una risposta, voglio dire… “A che serve? Se pur un giorno dovessimo arrivare a una conclusione che cosa avremmo risolto? Oppure, come la prenderemmo? Se ci dicessero che esiste un Dio e che costui sarebbe in grado di darci una ricompensa dopo la morte a seconda della nostra condotta terrena, che senso avrebbe tutto ciò che ci è intorno? Questo quaderno stesso e questa penna e il vomito che mi ricopre gran parte della maglietta non avrebbero più senso, ma d’altronde è un qualcosa che non si può spiegare. E se ci dicessero che ci reincarneremo all’infinito come quell’assorbente? Alzi la mano chi vuole vivere più di una vita e si è rotto già di questa e non sopporterebbe l’idea di rifare tutto da capo per l’eternità con l’ansia di reincarnarsi magari in qualcuno ancora più sfigato di noi…” Mi tirai su felice uscendo fuori ballando, abbracciando tutti, ridendo, saltando! eccolo lì Johnny! Vai Johnny vai!


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